Storie legate al faro di Capo Milazzo
Nell’estate del 1907 nello stretto di Messina si svolsero delle manovre navali della Regia Marina Italiana alle quali assistettero anche il re Vittorio Emanuele III ed il Sovrano del Siam. “Dopo le esercitazioni delle squadre, la R. nave Regina Elena, con a bordo S.M. il Re d’Italia e S.A.R. il conte di Torino, si ancorò nelle acque di Milazzo. S.M. il Re e il S.A.R. il conte di Torino sbarcarono alle ore 16 e, in carrozza, si recarono al promontorio di Milazzo.
Il Re venne festosamente accolto dalla popolazione. Il tempo era piovoso. La visita del Sovrano al faro di Milazzo durò oltre 2 ore.
Il Re, col conte di Torino, percorse in carrozza tutto il promontorio fino alla lanterna e visitò lo storico castello.
Verso le 18 il Re fece ritorno a bordo della Regina Elena” (da Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia n. 238 – 8 ottobre 1907).
Sappiamo che il fanalista in servizio al faro era Antonino Imbruglia (1864 -1928) ed insieme a sua moglie Francesca Caravello accolsero il re. Come usanza furono sfoggiati i pezzi più belli del corredo, Francesca preparò la tavola, mise una bellissima tovaglia di lino con ricamo a intaglio e pose piatti con frutta di stagione da offrire all’illustre ospite. In tale occasione si parlò di un evento per il quale Antonino qualche anno prima fu insignito, insieme al suo collega Stefano Currò, con la medaglia di bronzo al valore di Marina per aver salvato il 18 ottobre del 1902 tre naufraghi dello schooner “Invidiata”.
Nel pomeriggio del 17 ottobre due velieri che trasportavano tavole di faggio furono sorpresi da un ciclone, uno si inabissò con tutto l’equipaggio in prossimità della Grotta di Polifemo, l’altro si capovolse poco lontano da Capo Calavà e andò ad incagliarsi a circa un chilometro e mezzo dal promontorio di Capo Milazzo. Dell’equipaggio composto da sei uomini soltanto tre riuscirono a lottare contro la furia del vento e del mare restando disperatamente aggrappati alla chiglia della nave. Alle tre e mezza del mattino del 18 ottobre uno dei fanalisti addetti al faro del promontorio, tra il rombo dei tuoni ed il sibilo del vento udì come un pianto e dei lamenti. Avvertì subito il suo collega, e presa una lanterna uscirono di casa per andare a vedere cosa fosse successo. Si diressero prima verso nord ma non videro nulla poi verso ponente. I naufraghi dal mare videro quel lume sulla riva e aumentarono, con tutte le forze che avevano, le loro disperate grida di aiuto. I fanalisti, allora, capirono che era avvenuto un naufragio. Si diressero alla spiaggia e grazie ad un provvidenziale spiraglio di luna che si aprì nel cielo cupo videro il luccichìo della chiglia. Senza perdere tempo presero la loro piccola imbarcazione a remi e si diressero fra i flutti impetuosi verso quel luccichìo e quei lamenti angosciosi.
Con grandissima fatica raggiunsero i naufraghi, non poterono avvicinarsi troppo allo scafo capovolto perché il mare si frangeva e non avevano una cima da lanciargli. Così li esortarono a lasciarsi cadere in acqua in modo da riuscire a tirarli su in barca. I poveretti dopo quattordici ore in quelle condizioni erano stremati e l’idea di lanciarsi in mare non gli sorrideva. Dopo diverse esortazioni dei fanalisti, il più giovane dei malcapitati comprese che era l’unico modo per salvarsi, perciò si gettò in acqua e fu tratto in salvo sulla barca. Il secondo naufrago seguì il suo esempio e fu tratto anch’egli in salvo. Il terzo e più anziano dei tre si rifiutò di staccarsi dal relitto si sentiva senza forze ed aveva troppa paura. Allora i due fanalisti continuarono con le loro parole di esortazione: “buttatevi in mare o tutti salvi o tutti morti!”. Finalmente anche il terzo uomo fu tratto in salvo.
Bagnati fino alle ossa con quella barchetta piena d’acqua, sballottata dalle onde alte, e con una fatica immane i cinque riuscirono ad arrivare sulla terra ferma: erano tutti salvi!
Due foto che ritraggono Antonino Imbruglia; nella seconda è insieme al suo collega Stefano Currò, la foto è stata scattata al faro di Milazzo, il bambino è il figlio di Currò.
Generazione di faristi al faro di Capo Milazzo: la famiglia Imbruglia – Nota di Giuseppe Imbruglia
La passione e l’immenso amore e rispetto per il mare, che hanno accompagnato la mia esistenza derivano anche dall’essere uno dei discendenti di una dinastia di uomini di mare, di capitani e soprattutto fanalisti.
Il rapporto della mia famiglia con i fari ha origini lontane, infatti il capostipite Stefano Imbruglia (1812 – 1896) fu tra i primi fanalisti ad essere inserito nella prima lista di fanalisti designati dal nascente Regno d’Italia per la riorganizzazione e gestione dei fari siciliani (1862). Espletò il servizio nei fari di Capo Milazzo, del porto di Milazzo, di Capo Salina e Lipari. Purtroppo di lui non si è riusciti a trovare documenti foto e altre notizie utili.
Suo figlio, il mio bisnonno, Antonino Imbruglia, nato il 10 novembre 1864, fu nominato il 20 marzo 1886, a soli ventidue anni agente fari. Prestò servizio nei fari del porto di Milazzo (1887), nelle isole Eolie, al faro San Raineri di Messina (1889), al faro di Capo Peloro Messina (1894), al faro di Capo Milazzo (1895) e altre destinazioni per un totale di quarantadue anni.
Svolse il suo lavoro con onestà, spirito di sacrificio e generosità, virtù che lo portarono ad essere proposto dal Comune di Milazzo per il conferimento di una medaglia d’oro al valore di marina, per avere, il 18 ottobre 1902, salvato, a rischio della sua vita, tre naufraghi del brigantino goletta “L’Invidiata” nelle acque di Capo Bianco (Milazzo). Successivamente per mezzo del Ministero della marina venne insignito, invece, della Medaglia di Bronzo al Valore della Marina concessagli il 3 luglio 1903 dal Re d’Italia. Il 31 dicembre dello stesso anno fu nominato capo fanalista.
Morì il 10 luglio 1928, sulla sua tomba fu posta questa iscrizione : “Per quarantadue anni tenne acceso vigile sul mare il faro occhio dei naviganti”.
Alcuni documenti della famiglia Imbruglia: a sinistra la lettera di trasferimento del bisnonno dal faro di Capo Peloro al faro di Capo Milazzo (13 febbraio 1895). Al centro e a destra il primo e l’ultimo foglio del verbale di consegna (28 febbraio 1895). Il documento è composto da un totale di undici pagine, con il dettaglio di tutto il materiale da lavoro, arredi, suppellettili e quant’altro necessario alla vita nel faro. Era prassi all’epoca compilare, da parte del fanalista uscente, questo documento da far sottoscrivere, dopo accurato controllo, anche al fanalista subentrante. Oltre alla quantità del materiale era anche annotato il relativo stato d’uso.
Dopo un salto generazionale, arriviamo a mio padre Antonino Imbruglia (30/7/1929-30/7/2008) ultimo farista della dinastia. Dopo aver lavorato come motorista navale su mercantili e pescherecci, da Milazzo si trasferì con tutta la sua famiglia ad Augusta lavorando come motorista sui rimorchiatori. Nel frattempo decise di fare domanda per il concorso per 60 posti da Agenti Fari e seguire dunque la carriera dei suoi avi.
Il 2 maggio del 1958 partì per la Spezia, vinse il concorso ed il 19 ottobre 1959 ebbe la nomina. Dopo un breve periodo di addestramento presso l’Ufficio Tecnico Fari di La Spezia, nel marzo del 1960 fu inviato al segnalamento radio faro Dromo Giggia di fronte al porto di Augusta (SR) dove restò fino all’aprile del ’66. Nello stesso mese venne promosso Agente Capo Fari e fu trasferito a Salina al faro di Punta Lingua con competenza anche sull’altro faro dell’isola a Capo Faro di Malfa. Ad ottobre del ’73 fu trasferito al faro di Capo Milazzo e qui restò in servizio per sedici anni e tre mesi fino a quando fu collocato in pensione per dimissioni per motivi di salute il 1 gennaio del 1989.
Ricordi di vita al faro – Racconto di Giuseppe Imbruglia
Nell’immaginario collettivo la vita nei fari viene vista come una vita dura, con tanti sacrifici e disagi, soprattutto per noi familiari, e per molti sarà stato senz’altro così. Per me, invece, è stata una grande e meravigliosa avventura, tanti anni trascorsi in luoghi unici non accessibili a tutti, in spazi aperti a contatto con la passione della mia vita, il mare. Mi consideravo la persona più fortunata del mondo a vivere a stretto contatto con la natura incontaminata, l’enorme ricchezza che ne ho ricevuto da questa esperienza è stata senz’altro superiore a qualsiasi privazione, un’esperienza che ha forgiato e condizionato il mio carattere facendomi diventare quello spirito libero, che ancora oggi difficilmente si adatta alla vita frenetica di questa società, a vivere a stretto contatto con gli altri in quella caotica confusione chiamata città.
Tra i fari in cui mio padre ha prestato servizio, Capo Milazzo è sicuramente quello in cui ho vissuto più intensamente questo rapporto con il mare e con la natura, forse perché il faro, incastonato come una perla nel promontorio più bello della Sicilia, aveva tutto intorno grandi spazi di verde e scogliere mozzafiato, o forse perché avevo un’età in cui si apprezzano meglio queste cose. Nell’autunno del ’73 ci siamo trasferiti dal faro di Punta Lingua di Salina, dove ho trascorso gli anni indimenticabili della mia gioventù, al faro di Capo Milazzo. Abbiamo riscontrato qualche problema iniziale, che riguardava più che altro la distanza dal centro cittadino che distava sette km. A circa 300 metri si trovava la piazzuola da dove partivano gli autobus per la città, e questo forse era il disagio maggiore, spostarci in macchina o autobus per raggiungere le scuole, e per approvvigionarsi di tutto ciò che serviva per il vivere quotidiano.
La solitudine non è stata per noi un grande problema, in quanto a casa mia eravamo, oltre ai miei genitori, sei figli a cui si aggiungeva la famiglia dell’altro fanalista composta dai genitori e quattro figli, quattordici persone che quasi costituivano una piccola comunità. Questo per un certo periodo, poi subentrò un altro collega di mio padre che aveva la famiglia che viveva in città, e rimaneva solo lui nell’altro appartamento. Inoltre, nel periodo estivo, nelle adiacenze della piazzetta c’erano diversi ristoranti ed un camping che ci tenevano compagnia, ma finita l’estate finalmente ci riappropriavamo dei nostri spazi e della natura selvaggia.
La vita al faro scorreva lenta al passo con le stagioni. La mattina dopo aver fatto una sana colazione preparata da mia madre, ci incamminavamo per la stretta stradina sterrata che portava alla piazzetta S.Antonio dove l’autobus ci attendeva per portarci a scuola. Mio padre già sveglio da ore, dopo essere salito sulla torre a coprire con tende i vetri esterni della lanterna, in modo che i raggi del sole non colpissero l’apparato lenticolare, iniziava la giornata andando in centro a ritirare la posta del segnalamento, e acquistando ciò che serviva alla famiglia, dopodiché si accingeva ad effettuare quelle piccole manutenzioni ordinarie che servivano a rendere efficienti il faro e gli alloggi annessi. Spesso si dirigeva nell’orto, che aveva in comune con il collega, che si trovava in un ampio spazio a circa 100 metri dal faro, dove c’erano tre costruzioni, adibite, prima del 1945, a stazione radio, e che dopo la guerra vennero utilizzate dai fanalisti come magazzini e locali dove venivano tenuti conigli e galline. L’orto richiedeva attenzione ed impegno, in quanto venivano coltivate molte tipologie di ortaggi, ad uso delle famiglie che vivevano al faro.
Ci potevamo ritenere fortunati, molto di quello che serviva per il sostentamento, a parte gli ortaggi coltivati e qualche albero di fichi e limoni, era la natura a donarcelo giornalmente. Nella vasta discesa alla scogliera, in passato coltivata a vigneto, si trovava di tutto, una grande quantità di verdura selvatica di tanti tipi, asparagi, funghi, fichi d’india, tantissime piante di capperi, e poi le lumache, e tantissimi conigli, mio padre era un bravo cacciatore.
Ma era il mare che in ogni stagione ci dava i suoi frutti in abbondanza, mangiavamo pesce quasi tutti i giorni, utilizzavamo tutti i tipi di pesca, d’inverno con la canna, passavamo dalla Piscina di Venere per raccogliere gamberetti che usavamo come esca, pescavamo con la barca utilizzando il bolentino o la traina, d’estate effettuavamo la pesca subacquea, una passione che aveva mio padre e che ha trasmesso anche ai tre figli maschi. Sulla nostra tavola non mancavano polpi, cernie, scorfani, murene, saraghi, ricci di mare, patelle e tutto ciò che il nostro meraviglioso mare ci omaggiava. A volte la sera portavamo anche le nostre sorelle a pescare sulla scogliera, con delle torce ed un guadino catturavamo i grossi granchi. Spesso nella terrazza del faro si facevano bellissime tavolate con amici e parenti: stare tutti insieme in quel luogo magico, con il vociare dei più piccoli, con le risate e le discussioni degli adulti, respirando quell’aria incontaminata ricca di odori e fragranze che salivano dal mare e dal promontorio, ci rendeva felici. Sensazioni indescrivibili che ancora oggi mi mancano.
Dato che vivevamo in quel paradiso, a nessuno di noi veniva in mente di andare alla spiaggia in città. Un viottolo e degli scalini ci portavano a Punta Messinese. Avevamo l‘imbarazzo della scelta, scendendo sulla scogliera a sinistra si trovava l’Isolotto del Carciofo da cui ci tuffavamo, di fronte la Piscina di Venere, una sorta di laghetto naturale attorniato da bianche rocce di cui una con la forma di un viso e infine a sinistra Gamba di Donna una grotta a cui si poteva arrivare a nuoto o con la barca, con al centro una stalattite a forma di gamba di donna. Di fronte il panorama delle isole Eolie.
L’estate era il periodo più intenso per vivere al faro, ma l’inverno non era da meno. Gli spettacoli che la natura ci regalava erano indescrivibili, il faro si trovava in una posizione tale che sembrava quasi di essere sul ponte di comando di una nave; infatti nelle giornate tempestose salivo spesso sulla torre della lanterna per ammirare la potenza del mare che si infrangeva sulla scogliera, a volte come la prua di una nave la Punta Messinese spariva sotto i marosi, uno spettacolo unico. Inoltre, dalla torre si godeva un panorama mozzafiato a 360 gradi, dall’Etna innevata alle isole Eolie, dalla Calabria ai monti Peloritani e Nebrodi e alla costa tirrenica, a sud lo sguardo volgeva verso il paesaggio spettacolare del promontorio nella sua interezza con la piccola spiaggia di Rinella a levante, la piazzetta di S.Antonio con l’omonimo santuario, la città di Milazzo e l’immensa spiaggia di ponente che arrivava fin sotto il Tindari. Anche nelle giornate nuvolose passavamo tanto tempo in mezzo alla distesa di ulivi che si trovava nei terreni sotto il faro, a sentire le sferzate del vento sui nostri visi. Era difficile per i genitori tener noi figli in casa, in quell’angolo di paradiso.
Nelle giornate piovose, dopo aver fatto i compiti, facevamo merenda con biscotti e torte che mia madre preparava e cuoceva nel forno a legna dietro casa. Erano i momenti in cui la famiglia era più unita. I piccoli giocavano nelle loro stanze mentre noi più grandi guardavamo la tv oppure ascoltavamo con interesse i discorsi dei fanalisti che discutevano di caccia, pesca, politica o semplicemente di ciò che riguardava il segnalamento (allora i giovani amavano ascoltare gli adulti).
Le feste tradizionali trascorse al faro avevano un’atmosfera e un sapore diverso, probabilmente in quanto trascorse in quel luogo magico, tutti insieme con le nostre famiglie. Tra i ricordi più belli della mia vita vissuta nei fari, questi momenti sono quelli più vivi e di cui ho più nostalgia, soprattutto le festività natalizie. Qualche settimana prima di Natale i miei fratelli ed io raccoglievamo il muschio e i legnetti trasportati dal mare, per preparare la base del presepio, mentre mia madre con le mie sorelle costruiva le casette. Poi tutti insieme lo addobbavamo e ovviamente si faceva anche l’albero di Natale. Trascorrevamo intere serate, a cui partecipava anche la famiglia dell’altro fanalista, a giocare a carte e a tombola; ho ancora nelle orecchie la confusione, il chiacchiericcio che facevamo, magari qualche arrabbiatura perché qualcuno aveva fatto tombola prima di noi. Negli intervalli mia madre ci deliziava con i suoi dolci. Ma il momento più emozionante, soprattutto per i più piccoli, che attendevano con trepidazione, era l’Epifania, in quei giorni infatti arrivava il camioncino di Marifari che portava scatole con giocattoli e regali assieme a torroni, panettoni e leccornie varie. Era festa per tutti, anche per noi che eravamo ormai grandi.
I lunghi anni di servizio al faro di capo Milazzo ci videro spettatori, in prima fila, come fossimo in un immenso teatro, o davanti ad uno schermo di dimensioni titaniche, di tutto ciò che accadeva in quell’immenso tratto di mare, dalle regate veliche, ai campionati di pesca subacquea, ai mondiali di immersione ai passaggi dei cetacei e dei delfini. Abbiamo visto ogni tipologia di imbarcazioni e le loro evoluzioni tecniche nel tempo, dai primi piccoli e lenti traghetti ai velocissimi aliscafi. Molto spesso ci sorvolavano a bassa quota i velocissimi aerei militari che usavano come riferimento il faro in quanto posizionato sul promontorio più estremo della Sicilia orientale. Di notte si assisteva allo spettacolo delle lampare che illuminavano il mare tutto attorno a Punta Messinese. Siamo stati senza volerlo anche partecipi di tragedie, come l’incendio di un aliscafo di linea che provocò morti e feriti; ma quello che mi ha maggiormente turbato, praticando gli uomini della famiglia la pesca subacquea, è la sorte che tanti subacquei hanno avuto nel trovare la morte in quelle acque da sogno. Vedere le barche che li cercavano incessantemente ed assistere al loro ritrovamento, è qualcosa che ci ha segnato l’anima.
La vita al faro, come quella in mare, non ha visto solo sorrisi e allegria. Un triste giorno di novembre del ’75, ci giunse la notizia della morte di mio fratello Vincenzo, il secondo dopo di me, io ero il più grande, deceduto mentre svolgeva il servizio militare. Nella mente e nel cuore della mia famiglia e ovviamente anche della famiglia del collega di mio padre calò il gelo, forse ci sentimmo per la prima volta veramente isolati, il silenzio e la disperazione caddero sulla piccola comunità, amplificati forse anche dall’essere in quel luogo che sembrava in quel momento il più distante dal mondo ma che al tempo stesso ci abbracciava come a consolarci e a proteggerci.
Assorbito il colpo, la vita riprese il suo corso, ma niente fu come prima. Mio fratello era lì con noi, ogni angolo del faro, ogni scoglio, ogni anfratto o albero della verde e vasta Punta Messinese ce lo ricordava, poi pian piano ritornarono le voci festanti dei bambini, le discussioni nel terrazzo tra i fanalisti, le feste insieme. Mio padre per anni, dalla morte di mio fratello, la notte di Capodanno, dopo cena, andava a letto senza attendere la mezzanotte con noi. Dopo cinque anni la mia famiglia andò ad abitare a circa tre km dal faro, sempre sul promontorio; mio padre continuò il servizio alternandosi con l’altro fanalista, rimasto solo anche lui in quanto la famiglia si trasferì in città. Dopo qualche anno il collega andò in pensione e mio padre rimase solo nella gestione del faro; cercò di resistere ma dopo vari malori avuti in servizio, di cui uno un po’ più grave durante una notte, prese la decisione di dimettersi per motivi di salute nel gennaio dell’89. Non so se di tanto in tanto facesse di nascosto una capatina al nostro faro. Una volta ristabilitosi, per parecchi anni, passò l’estate nell’isola di Salina vicino a quel faro di Punta Lingua che tanto amava, e proprio a Salina alla fine di giugno del 2008 ebbe un forte malore. Un mese dopo, l’ultimo rappresentante di una delle più antiche dinastie di fanalisti, l’ultimo guardiano della luce sul promontorio, se ne andò.
Dal 1989 il faro è rimasto disabitato, abbandonato a se stesso, alle intemperie e ai vandali. Anche se chiuso da un cancello, ci sono passaggi dappertutto, ed è diventato, nonostante lo stato precario in cui si trova, meta di turisti. Anch’io, parecchie volte, sono andato a visitarlo, soprattutto negli ultimi mesi, dato che a breve diventerà un resort; ma vedere quel posto pieno di ricordi, in cui ho vissuto tanti anni con tutta la mia famiglia, ridotto in quello stato, ogni volta mi faceva stare male. Di solito mi soffermavo dietro il faro su ciò che rimaneva di una di panchina in muratura, costruita da me e mio fratello per ammirare il panorama, e lì chiudevo gli occhi e fantasticavo; immaginavo di sentire mia madre che si affacciava dal muretto e mi chiamava per dirmi che era pronto a tavola o di sentire i miei fratelli e sorelle più piccoli giocare. Ritornavano alla mia mente lucida, tutti i ricordi, belli e meno belli, dopo un po’ però la tristezza spariva e lasciava il posto alla gioia, alla consapevolezza di aver vissuto alcuni degli anni più belli della mia vita in un luogo unico per la sua bellezza e soprattutto riservato a pochi fortunati.
Ricostruzione storica ed evoluzione del faro di Capo Milazzo di Angelica Giordano
Ed ecco come appare oggi il faro di Capo Milazzo:
Modello 3D del faro di Capo Milazzo ottenuto tramite rilievo aereo con drone e tecniche fotogrammetriche.
Ed ecco il faro ed il promontorio in tutta la loro bellezza!
Ringraziamo Giuseppe Imbruglia per aver partecipato alla stesura di questo lavoro, mettendo a disposizione foto e documenti di famiglia e per aver condiviso con noi racconti ed emozioni di vita al faro.
Un grande ringraziamento anche alla giovane architetto Angelica Giordano per aver condiviso con noi il materiale della sua tesi di Laurea magistrale in Architettura per il progetto sostenibile al Politecnico di Torino. Titolo della tesi “The Livehouse Milazzo. Un Faro da Vivere. Rilievo, recupero e valorizzazione in chiave sociale e sostenibile del Faro di Capo Milazzo in Sicilia. 2017, a cura di Angelica Giordano e Alessia Dal Ben”.
La tesi è stata valutata meritevole di segnalazione dalle Commissioni dell’area dell’architettura del Politecnico di Torino.
Il lavoro di tesi è stato presentato ed esposto al Castello di Milazzo dal 1 agosto al 30 settembre del 2017.
© Angelica Giordano-Felicetta Santomauro-Giuseppe Imbruglia-Vittorio Grandi