Il racconto che segue, come altri che verranno, non è frutto della fantasia degli autori di questa rubrica, ma resoconto di fatti realmente accaduti. In questo caso Vittorio Grandi, funzionario in pensione del NATO Centre for Maritime Research and Experimentation (CMRE), ricorda alcuni momenti trascorsi presso il faro della Formica Grande di Grosseto in occasione di campagne di sperimentazione scientifica. Solamente i nomi propri di persona sono di fantasia, a tutela della privacy dei protagonisti del racconto.
I colleghi più anziani la chiamavano la “malattia del ferro”, una nostalgia di lamiere e legno e del dondolio continuo che ti accompagna giorno e notte e che ti fa contrarre i muscoli anche quando, ormai a terra, cerchi di compensare il movimento di un mare che ormai non c’è più.
A me sarebbero occorsi ancora molti anni perché mi ammalassi di quella sindrome misteriosa che contagia i marinai di tutto il mondo. E io, in quella tenue mattinata d’inizio primavera del 1994, marinaio certamente non ero ancora, a bordo del Manning che, salpato da Porto Santo Stefano due ore prima, alla volta della Formica Grande di Grosseto, stava tagliando un mare tanto calmo da sembrare avvolto in un telo oleoso, con i dieci nodi che il suo vecchio cuore diesel ancora gli permetteva.
Era una vecchia unità da trasporto truppe che l’esercito americano aveva donato al Centro molti anni prima. Importanti lavori di ristrutturazione l’avevano trasformato in un vero e proprio laboratorio galleggiante di diciotto metri per la ricerca sottomarina in acque costiere. Eppure, nonostante quella trasformazione, conservava ancora quel profilo che sembrava disegnato da un bambino, con il gigantesco bigo di prua e il cassero centrale come una casa posata sul mare.
No, non sono un marinaio, pensavo. Me ne stavo sdraiato sulla panca di legno addossata alla plancia, con lo stomaco in subbuglio e la testa che scoppiava. Quel mare lungo, memoria di una libecciata di qualche giorno prima, proprio non riuscivo a reggerlo, nonostante la Xamamina che avevo ingoiato subito prima della partenza.
Giacomo, il nostromo, detto Giakò, compare ogni tanto dal boccaporto di prua per accertarsi che io sia ancora vivo. La mitologia del Centro vuole che Giakò sia la reincarnazione di un cinghiale, come nemesi delle sue ben note battute di caccia. Giakò ha un corpo imponente che muove con il passo oscillante di chi ha passato la sua intera vita di adulto a bordo di qualunque cosa stia a galla. Il busto è perennemente piegato in avanti come a dover portare un peso o ad afferrare una cima. È in grado di trasportare una billetta da cinquanta chili da prua a poppa come fosse un beauty case, ma anche di fare una gassa d’amante a occhi chiusi e con una mano sola. Pietro, il comandante, un uomo rubizzo che vira al rosso alla fine di ogni pasto quando si surriscalda iniziando a parlare di politica, sorride paterno come uno che di scene così deve averne viste tante su quella barca. Anche Gianfranco, macchinista e cuoco, si interessa a me. Mi porta un panino con le acciughe assicurandomi che avrei smesso di soffrire, e io, per tutta risposta, mi precipito alla murata di dritta a dare fuori l’anima.
Detesto sentirmi così. È la mia prima volta sul Manning e anche la mia prima “crociera”, come chiamiamo le attività di ricerca che si svolgono a bordo. Mi chiedo se io sia davvero portato per questo lavoro. E a chiederselo deve essere anche Jörg, lo scienziato tedesco con cui mi sono imbarcato e che se ne sta seduto in plancia a conversare amabilmente con il comandante senza dare alcun segno di malessere. Jörg è uno specialista di geomagnetismo e ha da poco ottenuto un contratto di ricerca quinquennale con il Centro. Io gli sono stato affiancato come responsabile della parte ingegneristica e logistica degli esperimenti che condurrà nei prossimi anni. Cominciamo a luglio e questo è un viaggio esplorativo per conoscere il faro della Formica Grande che ospiterà noi e le nostre attrezzature, l’isola dove installeremo alcuni sensori, e il fondale del mare che la circonda dove poseremo altri strumenti di misura.
Siamo due novellini. Nessuno di noi ha mai lavorato in mare. Lavoro al Centro da meno di un anno e sono discretamente preoccupato. Tutti noi chiamiamo “il Centro”, quello che con denominazione più pomposa è noto come SACLANT Undersea Research Centre, il centro di ricerca della NATO per l’acustica subacquea e l’oceanografia.
Agli inizi degli anni ’70 la Marina Militare Italiana concesse al Centro l’uso dell’isola, e del faro che si erge sulla sua sommità, per scopi di ricerca scientifica. A seguito di questo accordo, il Centro eseguì importanti lavori di ristrutturazione trasformando il faro in un vero e proprio laboratorio dotato di foresteria per tecnici e scienziati, di cucina, servizi e di un generatore di corrente. Periodicamente una squadra di operai del Centro parte alla volta dell’isola per eseguire lavori di manutenzione al faro, lavori necessari per rimediare ai danni che le frequenti mareggiate e i venti impetuosi carichi di sale infliggono alla struttura. Sono proprio loro che ci stanno aspettando e ci faranno gli onori di casa. I colleghi parlano di questa casa come della miglior nave del Centro e io non vedo l’ora di mettere i piedi a bordo.
Pietro annuncia all’interfono che manca mezz’ora all’arrivo e io riprendo colore. Riesco a sollevarmi dal mio giaciglio di legno e vedo l’isola, lì davanti a me. La nausea passa all’improvviso e chiedo a Gianfranco dov’è finito quel panino con le acciughe. Il Manning rallenta la sua corsa lanciando una nuvola di fumo nero e passando l’estremità orientale dell’isola vira a sinistra per accostare all’unico approdo. Al riparo dall’onda lunga, il mare si spiana e posso godermi la vista dell’isolotto che mi appare meno desertico di quanto pensassi, circondato come è da una folta vegetazione mediterranea, per gran parte composta da piccoli arbusti, e ginestre. Alla sua sommità, valuto non più di una decina di metri sul livello del mare, sta il faro, quello che sarà la mia casa-laboratorio per molti anni a seguire. La torre cilindrica, in muratura bianca e sormontata da una lanterna metallica grigia, si appoggia a un edificio basso e rettangolare anch’esso dipinto di bianco. Per arrivarci c’è una mulattiera, in parte cementata, che sale dal piccolo molo al quale stiamo approdando.
Sul moletto un piccolo gruppo di persone ci sta salutando. Riconosco Ubaldo, colui che coordina i lavori, e poi Massimo e Paolo. Con tutti avrò modo di lavorare, e ancora non so quanto preziosa diventerà la loro amicizia. Immerso nella bellezza selvaggia del luogo non mi sono accorto che siamo approdati. La scaletta viene rapidamente fatta scendere a terra e, per la prima volta in vita mia, metto piede sulla Formica Grande di Grosseto.
(continua)
©Vittorio Grandi e Felicetta Santomauro