Ricordi di un farista per caso-seconda parte

Ubaldo mi venne incontro allungando la mano e mostrando un sorriso pieno di denti bianchissimi, tanto perfetti da sembrare finti. La stretta fu forte, forse esageratamente forte, in contrasto con un palmo privo di ruvidezze, a ricordarmi quello che già sapevo di lui: un uomo più abituato a comandare che a eseguire. Ma ciò che più mi colpì in lui, in quella circostanza, fu il colore della pelle, lo stesso di una vecchia valigia di cuoio, una pelle combusta dal sole che la mise completamente bianca amplificava, così come il colore dei capelli, talmente bianchi da virare all’azzurro e tenuti un po’ lunghi, che un fresco grecale muoveva come le onde che in quel momento frangevano sugli scogli appuntiti. Anche lo sguardo, diretto e senza incertezze, denotava un carattere forte, al limite dell’autoritario, stemperato solamente da quel sorriso che solo raramente, come in un attimo di distrazione, si piegava in una smorfia amara.

Dopo un breve saluto all’equipaggio e pochi ordini sbrigativamente impartiti agli uomini della manutenzione, Ubaldo ci guida lungo la mulattiera che sale dal moletto e porta, dopo una breve salita, al faro. Ci aggiorna subito sullo stato dei lavori, assicurandoci che il faro sarà perfettamente agibile per la data prevista per l’esperimento ed anche della presenza di alcuni dei suoi uomini nei giorni iniziali per aiutarci nell’installazione della strumentazione e nella logistica. Solamente Emilio, cuoco e tuttofare, resterà con noi per l’intero periodo. Nel frattempo, Massimo e gli altri iniziano a trasportare al faro vettovaglie e materiale vario scaricato dal Manning, mentre Giakò collega una manichetta alla condotta che porta al serbatoio che si trova sul tetto dell’edificio e inizia a pompare acqua.

Giungiamo al faro. L’edificio è ben conservato e solo in alcune parti l’intonaco risulta scrostato. Tutt’attorno attrezzi, mattoni e sacchi di cemento. Una betoniera, sul retro macina il suo impasto. Emilio sta apparecchiando una lunga tavola sistemata di fronte all’ingresso principale. Dove non bastano le sedie, vengono aggiunte casse di legno. Un ampio telo bianco ci protegge dal sole. Sento il profumo inconfondibile di sugo di muscoli. Il panino con le acciughe ha esaurito il suo compito.

Ubaldo ci guida all’interno parlandoci brevemente della storia del faro. Il faro, risalente al 1901, venne attivato dalla Marina Militare (all’epoca Regia Marina) per l’illuminazione degli isolotti. Nella sua costruzione vennero impiegati carcerati provenienti dall’Isola d’Elba. Il suo aspetto attuale è stato conferito da una ristrutturazione avvenuta nel 1919. L’interno è diviso in due zone identiche e simmetriche, a testimonianza del fatto che poteva ospitare due fanalisti, ed eventualmente le loro famiglie, anche se risulta che sia stato non presidiato per lunghi periodi di tempo, fino alla sua completa automatizzazione, avvenuta probabilmente alla fine degli anni Sessanta.

Quando, a metà degli anni Settanta, iniziarono le prime attività di ricerca alle Formiche di Grosseto – prosegue Ubaldo – l’edificio del faro versava in un grave stato di abbandono. Un’enorme crepa lo attraversava dal tetto alle fondamenta, l’interno era stato vandalizzato e pieno di rifiuti, i muri devastati da scritte di ogni sorta, gli infissi mancanti o tanto danneggiati da essere inservibili. Solo la torre si presentava in uno stato sufficientemente decoroso da garantirne la funzionalità. All’epoca, e fino alla metà degli anni Ottanta, la luce del faro veniva alimentata con l’acetilene contenuto in grosse bombole disposte alla base della torre

Come si presentava il faro attorno al 1930

I lavori di ristrutturazione, iniziati in quegli anni, furono volti inizialmente a stabilizzare la struttura con catene e tiranti. Il passo successivo fu quello di sostituire gli infissi e installare porte e scuri a prova di effrazione, principalmente allo scopo di evitare che turisti estivi, sempre numerosi durante la bella stagione, potessero entrare e danneggiare strumenti e apparecchiature fisse in assenza di personale stanziale. Lo sbarco di persone estranee avveniva più o meno regolarmente, anche se ovviamente l’isola era considerata off limits per chiunque non fosse autorizzato. La disposizione dei locali venne quindi parzialmente modificata per adattarla alle nostre esigenze. Vennero ricavati due dormitori, il principale, con annesso bagno, cui si accedeva solamente dall’entrata posteriore e che ospitava due letti a castello. Un secondo dormitorio era invece stato ricavato dal locale adiacente la cucina. Completavano l’edificio un secondo bagno, un ampio laboratorio e un locale magazzino.

E a proposito del magazzino, riporto qui una storia che recentemente mi è stata raccontata dall’ amico ed ex collega Orfeo Chiappini, che colgo l’occasione di ringraziare per i numerosi ricordi e aneddoti che ha voluto condividere con me a proposito delle nostre permanenze sulla Formica Grande.

Successe, molti anni prima degli eventi che andiamo narrando, che una barca naufragasse sull’isola per le pessime condizioni del mare. La barca, a causa delle rocce aguzze e taglienti che non lasciavano scampo né agli umani né alle imbarcazioni, andò completamente distrutta ed affondò nel giro di secondi.  I naufraghi, due amici tedeschi che erano usciti per una battuta di pesca, finirono fortunosamente sull’isola. La loro sopravvivenza fu affidata a poche cose che trovarono all’interno del faro, prevalentemente razioni K provenienti da Camp Darby. Riuscirono infatti a penetrare all’interno, prima forzando, con attrezzi di fortuna, la porta esterna di accesso alla torre e poi sfondando un muro divisorio di mattoni non intonacato, che era stato eretto dagli uomini della manutenzione per separare la zona di competenza della M.M. da quella di competenza del Centro. Nel frattempo, veniva ovviamente diramato l’allarme, ma nessuno sapeva dove fossero finiti, dove fosse avvenuto il naufragio e soprattutto se fossero sopravvissuti. Furono recuperati dalla guardia costiera alcuni giorni dopo perché, pur non avendo mezzi per comunicare, riuscirono a spegnere la luce del faro chiudendo le bombole di acetilene e questo ovviamente provocò l’intervento della squadra manutenzione fari della M.M., che si recò il giorno dopo sull’isola e recuperò i naufraghi. Un messaggio venne ritrovato dai tecnici del Centro, sopraggiunti alcuni giorni dopo per riparare i danni, che diceva: “Siamo venuti a morire su quest’isola”. Da quel giorno la porta del magazzino che dà sull’esterno venne sempre lasciata aperta e nel locale vennero lasciati a disposizione, per chiunque ne avesse avuto bisogno, viveri, acqua, canne da pesca e salvagenti.

Ma torniamo a quel giorno di primavera di tanti anni fa. Visitati i locali e preso nota degli spazi disponibili per i nostri strumenti, disposizione delle prese elettriche, discese per le antenne, ingressi a parete per i cavi di collegamento con la strumentazione da disseminare sull’isola e da mettere a mare, Ubaldo ci accompagna a visitare il faro vero e proprio. Vi accediamo dalla porta esterna posta alla base della torre e saliamo per una stretta scala a chiocciola in muratura che ci porta rapidamente all’interno della lanterna. La delusione per ciò che vedo è in qualche modo forte perché, non so cosa immaginassi di trovare, noto solamente una lampada a incandescenza, e mi stupisco di quanto sia piccola rispetto a come me l’ero immaginata, alcune batterie e una piccola scatola che, mi dicono, contiene l’elettronica per l’accessione notturna e lo spegnimento diurno della lampada e per generare la sequenza di luce ed eclissi caratteristica di quel faro. L’ottica che circonda la lampada è fissa, dunque nessuna parte in movimento, per minimizzare i consumi, immagino. Usciti poi sul tetto dell’edificio, notiamo i pochi pannelli solari che generano l’energia elettrica necessaria ad alimentare quelle poche cose. Tutto qui, tutto molto semplice, molto asettico

Eppure, quel faro aveva visto ben altra complessità. Con l’aiuto dei ricordi di alcuni ex colleghi, e principalmente di Piero Guerrini che ringrazio, sono riuscito a ricostruire il funzionamento del faro quando ancora veniva alimentato ad acetilene. In breve, una piccola fiamma pilota rimaneva sempre accesa. Il lampo avveniva grazie a una maggiore immissione di gas la cui pressione faceva ruotare un piccolo cilindro di metallo pieno cui però mancavano determinati settori. In questo modo la rotazione del cilindro interrompeva periodicamente l’afflusso di gas alla fiamma pilota, causandone la maggiore o minore brillantezza secondo la sequenza di lampi ed eclissi programmata per quel faro. Una valvola sensibile alla luce (in pratica un’ampolla di vetro contenente un elemento sensibile al calore del sole e collegata al tubo del gas) teneva spento il faro in presenza della luce diurna. L’elettronica ci ha certamente semplificato la vita, ma quanta poesia abbiamo perso e soprattutto quanta sapienza tecnologica. Gli impianti a gas dei fari venivano spesso innovati con apparati pensati e costruiti nelle officine dei nostri arsenali militari i cui tecnici si occupavano anche dell’installazione e della manutenzione con soluzioni flessibili e originali per adattarsi alle diverse situazioni operative.

“Pronto in tavola!!!”. Emilio dalla cucina ci chiama, e tutti, veloci come percorsi da una scossa elettrica, ci ritroviamo seduti attorno alla tavola spartanamente apparecchiata. Ubaldo, seduto a capo tavola, impartisce direttive a Emilio e mesce vino ai più vicini. È lui il padrone di casa e quella è la sua isola. Direttamente dal pentolone vengono distribuite gigantesche porzioni di spaghetti ai muscoli. Un vino bianco freddo e frizzante gira per la tavola e subito la conversazione si anima. Sento Jörg discutere di lavoro con Ubaldo in un inglese duro come la sua lingua madre. Io preferisco scherzare con Massimo e con gli altri buttando subito il discorso sulle famose tedesche in topless che d’estate paiono prediligere la solitudine dell’isola. Una brezza fresca e leggera spira da levante e muove il grande telo bianco facendolo ondeggiare sopra le nostre teste. È un momento perfetto per me. Sto entrando in questo nuovo mondo e questo nuovo mondo mi sta accogliendo con affetto. Mi chiedo quanto durerà questo idillio, ma per il momento mi godo questa giornata di sole, questo cielo azzurro e rimando alla crociera che verrà ogni dubbio, ogni preoccupazione.

Il pomeriggio passa in fretta. Sul piccolo gommone del Manning pilotato da Giakò, Jörg e io perlustriamo la zona di mare dove dovremo posare i sensori più vicini all’isola. Grazie a due riflettori laser che in mattinata erano stati posizionati sull’isola, riusciamo a triangolare precisamente le coordinate dei sensori utilizzando un binocolo laser. All’epoca il sistema GPS non consentiva ancora localizzazioni sufficientemente accurate per i nostri scopi. Jörg prende accuratamente nota di tutto mentre io gli passo i valori della bussola e delle relative distanze.

Tre colpi di sirena ci informano che è tempo di rientrare, il Manning deve nuovamente volgere la prua al mare per rientrare a Porto Santo Stefano. Issato il gommone sul Manning, saliamo velocemente al faro per recuperare le nostre cose e ridiscendiamo lungo la mulattiera accompagnati da Ubaldo e dagli altri. Ci salutiamo con un arrivederci al Centro, Pino dà ordine di mollare gli ormeggi e lasciamo la banchina.

L’aria ora è ferma e la luce del sole che va scendendo sull’orizzonte colora di rosa le poche nuvole che ci accompagnano nel viaggio di ritorno. Il mare è immobile e io finalmente riesco a godermi il viaggio seduto in plancia accanto a Pietro immerso anche lui nei propri pensieri. Penso al lavoro di preparazione che mi aspetta, alle molte cose da fare, all’elettronica che ha ancora qualche problema da risolvere. Penso che luglio arriverà più velocemente di quanto io desideri e che per la prima volta starò lontano così tanto tempo dalla mia nuova famiglia. Ma è presto per la nostalgia e comunque questa è un’altra storia, una storia che magari racconteremo un’altra volta.

©Vittorio Grandi e Felicetta Santomauro