faro isola del tino
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Storie di famiglia sull’isola del Tino

A noi bambini l’isola del Tino un po’ ci faceva paura.

Quando nostro padre ci portava a vedere “il posto dove era nato nonno Vittorio” e la vedevamo sorgere dal mare col suo profilo scuro e scosceso, la sua boscaglia fitta, le sue rocce desolate, nude e grigie, ci sentivamo un po’ a disagio: un misto di inquietudine e fascinazione.
Pensavamo che forse potesse essere quella l’isola dei pirati, o quella dove Edmond Dantès, poi divenuto il Conte di Montecristo, aveva trovato il tesoro dell’Abate Faria.

Sbarcati, ci muovevamo con circospezione: quel luogo, con le sue rovine che si intravvedevano fra la vegetazione, quel bosco oscuro interrotto da improvvisi lampi di azzurro e di luce abbagliante, la grande sagoma del faro all’apparenza inaccessibile, ci incutevano un sentimento di timore e rispetto. La salita fino al faro era lunga per noi bambini, ma l’affrontavamo stoicamente senza brontolare, immersi nell’atmosfera della scoperta e dell’avventura. Mentre salivamo, nostro padre ci raccontava, ancora una volta, quella storia di famiglia che avevamo ascoltato già mille volte, ma che ogni volta ci pareva nuova.
“Una volta la lanterna del faro era un fuoco che, di notte, doveva ardere sempre, senza spegnersi maie i fanalisti dovevano darsi il turno per sorvegliarlo come delle vestali. La vita di tanti naviganti era legata a quel fuoco, una luce che indicava la via, là in mezzo al mare, dove strade non ce n’è. C’erano tre fanalisti e le loro famiglie su quella piccola isola e vivevano tutti nella grande casa del faro: per questo vostro nonno Vittorio è nato qua.”

Nonno Vittorio era un uomo di poche parole.
Mia sorella ed io, quando tornavamo da quelle gite al faro, lo assalivamo con le nostre domande: cosa mangiavate? C’erano altri bambini? Che giochi facevate? Quando il mare era in tempesta non avevate paura? E i fulmini?
Io poi (che sarei diventato ingegnere elettronico) ero particolarmente interessato agli aspetti tecnologici: ma come funzionava l’impianto del faro? A che distanza si poteva vedere la sua luce? Cosa faceva esattamente il bisnonno Alberto?
Nostro nonno ci dava sempre risposte sbrigative, mentre continuava ad armeggiare nel suo“ sgabuzzino delle meraviglie”, luogo off limits perfino per nonna Anna.

Mettendo insieme i dati estrapolati da quelle laconiche e “mugugnate” risposte, noi fratelli avevamo capito che:
sull’isola non c’era acqua, (si raccoglieva la pioggia in grandi cisterne e si prendeva a secchi dal pozzo); si faceva colazione col latte di capra e il pane ecco; si poteva pescare, fare il bagno, giocare con le cerbottane, i fucili di legno e spade di legno, le trottole, i cerchi delle botti, salire sugli alberi di fico e farsi delle gran scorpacciate; ci si lavava con l’acqua fredda e una volta alla settimana anche con quella calda (nella tinozza); ci si alzava all’alba e si andava a dormire appena faceva buio (bisognava risparmiare che palanche non ce n’era!).

Ma d’estate si poteva restare alzati un po’ più a lungo, non per vedere Carosello alla TV, ma per guardare le stelle nel cielo nero, che erano tante, tantissime, molte di più di quelle che si possono vedere adesso.

Perché “la luce elettrica” – diceva nostro nonno – “ci ha portato tante comodità, ma in cambio si è presa le stelle”.

NOTE

Alberto Grandi, bisnonno dello scrivente, fu Capo fanalista all’isola del Tino nel periodo che vide la conversione dell’impianto d’illuminazione del faro da luce ad acetilene a luce elettrica. Questo passaggio tecnologico avvenne in concomitanza con la costruzione della seconda torre, più alta della precedente e destinata ad ospitare la nuova sorgente luminosa con la relativa ottica, funzione che esercita ancora oggi. Era il 1884, nel pieno della seconda Rivoluzione Industriale.

L’industria elettrica nasceva negli ultimi decenni del secolo XIX: il 4 settembre 1882 entra in servizio la prima centrale elettrica del mondo, costruita da Edison a Pearl Street presso New York. L’Italia fu tra le prime nazioni ad occuparsi di questa nuova industria: nel mese di giugno del 1883 entrava in esercizio a Milano, la centrale di via Santa Radegonda, la seconda centrale al mondo e la prima in Europa, con una potenza installata di 400 KW.
Essa alimentava alcune migliaia di lampadine tramite quattro dinamo mosse da motrici a vapore. I successivi esperimenti di trasmissione di energia elettrica a distanza, prima in corrente continua e successivamente in corrente alternata, permisero l’utilizzo dell’energia idraulica, ubicata lontano dalle città, e quindi favorirono lo sviluppo degli impianti idroelettrici.
La prima importante centrale idroelettrica in corrente alternata (analoga alle attuali) fu inaugurata nel1886 a Tivoli e sfruttava le abbondanti cascate dell’Aniene per “illuminare a luce elettrica” la città di Roma. Questo costituì il primo esperimento al mondo di trasmissione di energia elettrica alternata a grandi distanze con un elettrodotto lungo 28 km.

La Marina Militare Italiana fu pronta a cogliere le nuove incredibili opportunità che la nuova tecnologia della produzione e distribuzione dell’energia elettrica offriva. La lampada del faro veniva alimentata da due gruppi elettrogeni indipendenti costituiti ciascuno da una turbina a vapore che a sua volta metteva in rotazione la dinamo che produceva la corrente elettrica continua utilizzata dall’impianto d’illuminazione e dai servizi. Da due a tre famiglie risiedevano permanentemente nel faro per gestire questi due impianti.

© Vittorio Grandi
© Foto di Gerardo Parisi – Isola del Tino col faro