Introduzione di Annamaria “Lilla”Mariotti

Pubblico qui una storia che si è svolta durante la seconda guerra mondale,  scritta da Cristina Palumbo Grandinetti, una cara amica e una persona che l’ha vissuta in prima persona, da bambina, la figlia di Enrico Mario Aristogitone Palumbo Grandinetti allora farista del  faro di Marettimo e che, diventata adulta, ha voluto scrivere un omaggio a  suo padre, che  ha compiuto  un’impresa coraggiosa e molto pericolosa per quei tempi, conservando il faro di Punta Libeccio, a Marettimo, per i posteri. Mi è giunta voce che il faro è in vendita, forse diventerà un altrto albergo di lusso, ma senza  il  coraggio e l’intraprendenza di quell’uomo oggi il faro non esiterebbe più

 

Come mio padre salvò il faro di Marettimo

durante la 2ª guerra mondiale

di Cristina Palumbo Grandinetti

Mio padre, ha trascorso 20 anni nella Regia Marina, asumendo anche la carica di guardiano dei fari. Cominciò a riflettere sui fari dopo un lungo imbarco sulla Cristoforo Colombo, allorché allo sbarco sul molo Beverello di Napoli, vide la reazione d’un bimbetto che per la lunga assenza del genitore, non volle accettare le carezze dello stesso, perché sconosciuto alla sua mente puerile. Quello episodio fu decisivo per mio padre e giurò che non doveva mai capitare a lui una cosa del genere, se un giorno avesse messo su famiglia, la sua vita doveva svolgersi a terra. Passò, quindi, ai sommergibili della base di Taranto e dopo al Corpo delle Capitanerie di Porto. Pertanto, allo scoppio della seconda guerra mondiale si trovò a prestare servizio, col grado di nostromo, presso il comando di Trapani.

 

Ritengo opportuno tornare un po’ indietro nel tempo e descrivere l’inizio della sua vita militare. Il suo grande amore per il mare sbocciò all’età d’otto anni, quando lasciò il suo paese natio in Sila: Paterno Calabro, in provincia di Cosenza, in cui era nato il 28.12.1914. Avendo perso il padre all’età di soli tre anni durante la prima guerra mondiale per un attentato a un treno, la sua esistenza subì una svolta determinante. Dal padre avrebbe avuto sicuramente una buona guida allo studio, essendo stato questi un insegnante di latino e greco a Roma. Ma a otto anni percepì il primo odore di salsedine a Napoli, dove dovette trasferirsi presso uno zio, generale e comandante della scuola militare “Statela “.

Il contatto con i militari forgiò e fortificò il suo corpo e la sua mente, fu così che decise di diventare marinaio e a sedici anni fuggì per arruolarsi in Marina. S’imbarcò sulla nave scuola “ Amerigo Vespucci”, passando poi a studiare presso la scuola navale “ Morosini “ di Venezia. Della sua vita, anche pericolosa, egli ne ha fatto delle storie, testimoniate anche dalle foto, e che noi figli da piccoli ascoltavamo in quei silenzi del faro, dove solo il vento e i rumori della notte ci riportavano all’ordine per andare a letto convinti di essere anche noi dentro quei fantastici racconti. Inizia così la vita militare di mio padre Enrico Mario Aristogitone Palumbo Grandinetti…..

Durante il periodo della guerra, con tutte le sue vicissitudini, ho detto già prima che prestava servizio col grado di nostromo alla Capitaneria di Porto di Trapani e subito dopo fu assegnato all’isola di Marettimo, il cui segnalamento marittimo: Punta Libeccio, era di vitale importanza per i naviganti. In occasione di questo trasferimento, conobbe mia madre, una bellissima isolana di cui si innamorò perdutamente e che sposò.  Senza dubbio, i meno giovani si ricorderanno di Caterina Campo, della famiglia intesa di Iacu Cristu, in via G. Pepe (u canaluni da pilusa ai lati della ex-chiusa).

Marettimo, 29 ottobre 1942

Nozze di Caterina ed Enrico Palumbo Grandinetti

Questo trasferimento quasi voluto dal destino, fu avvantaggiato dal fatto che certamente la vita non era tanto facile per il nostro protagonista, poiché proprio in quel periodo si avvicinava lo sbarco degli americani, ed essendo questi allora dichiarati nostri nemici, i tedeschi facevano di tutto per ostacolarli, facendo anche saltare le banchine del porto di Trapani per impedirne lo sbarco. Ma col senno del poi, con questa distruzione, anziché ostacolare, facilitarono lo sbarco dei mezzi anfibi statunitensi che trovarono tutto spianato.

Tali piani non erano condivisi da papà e perciò in mezzo a tutto quel grande caos, chiese apposta di passare ai fari e essendo un conoscitore del luogo non ebbe difficoltà a diventare guardiano del faro di Marettimo.

Fu a quel punto della guerra che mio padre ebbe l’ordine dall’Ammiraglio Manfredi di distruggere anche il faro, facendolo saltare con l’esplosivo, proprio come era stato fatto con le banchine di Trapani. Indubbiamente, il faro era un punto di riferimento molto importante e fondamentale per il nemico, ecco il motivo di tale scelta strategica militare.

In quel periodo il Comandante del Porto era un certo Di Leo, descritto da mio padre uomo capace, di grande valore e pregio. Per eseguire l’ordine, arrivarono da Trapani 250 kg di tritolo, trasportati addirittura da un mezzo privato, mettendo così a repentaglio la vita di un equipaggio formato da marinai e pescatori marettimari. Il comandante del natante in questione era zio Mario Torrente.

Venne sbarcato tutto sotto la costa del faro, zona impervia e rischiosa, non esistendo un approdo sicuro e l’esplosivo venne accuratamente sistemato nelle adiacenze del faro, affinché nulla restasse dopo la deflagrazione.

Il tenente Tarantino, allora capoposto, lasciò la postazione, tornando in paese per una strada scoscesa lunga 9 km. Capo Russo fece lo stesso con i marinai ai suoi ordini, intuendo il grave pericolo di vita che correvano.

Rimasero così solo mio padre e l’artificiere che gli disse: “Capo, io non me la sento, è troppo pericoloso perché la miccia è troppo corta e non c’è il tempo di mettersi in salvo, moriremo tutte e due senza pietà”. Comprendendo ciò, mio padre prese una decisione definitiva cambiando tattica. Quindi entrò nel faro, prese una tronchesina che mio padre poi conservò gelosamente per tutta la vita ed è tuttora esistente, e tranciò una parte della miccia per fermare la combustione.

Era però necessario fare qualcosa per non trasgredire agli ordini, altrimenti si sarebbe trattato di tradimento da corte marziale…. Allora mio padre lanciò una bomba a mano verso la zona minata lungo la scogliera. La tal cosa causò una forte esplosione che fece volare per lo spostamento d’aria i due uomini per un paio di metri. All’epoca, papà aveva 28 anni e pertanto i danni fisici furono limitati.

Il boato fu sentito distintamente in paese e tutti si chiesero se i due eroi fossero sopravvissuti, furono quindi accolti con grande esultanza quando ritornarono sani e salvi. Il faro di Punta Libeccio, tanto conteso oggi dai marettimari, esiste ancora per merito suo suo

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Anni ’50, al faro con la famiglia i Palumbo Grandinetti al completo

La vita di mio padre cambiò un poco dopo questo episodio, ebbe parecchi problemi, ma la sua capacità di difendersi ebbe la meglio e divenne in paese l’amico di tutti. Rimase nell’isola fino a quando i figli non furono cresciuti e nacque la necessità di trasferirsi sulla terraferma per farli studiare.

Questo era mio padre, uomo di grande valore, padre eccezionale, eroico guardiano del faro, che terminò la sua carriera a Siracusa, da lui amata profondamente e dove oggi riposa. Non dimenticherò mai la luce dei suoi occhi cerulei, il giorno in cui nel porto di Siracusa entrò a vele spiegate il suo primo amore: l’Amerigo Vespucci.