L’EVOLUZIONE DEI FARI DALLE ORIGINI AL REGNO D’ITALIA

di Annamaria “Lilla” Mariotti

Estratto da una pubblicazione  commisionato dall’Agenzia del Demanio a Lilla Mariottiae pubblicata dal Poligrafico e Zecca dello Stato

per la distribuzione agli intervenuti a un convegno sui fari organizato dal Demanio nel 2007

PRIMA PARTE

Quella dei fari è una storia affascinante, che si risale alla notte dei tempi e che va di pari passo con l’evolversi della navigazione.

Superato un primo momento di terrore verso l’elemento sconosciuto, appena costruita la prima zattera, forse fatta di pelli o anche una canoa, ottenuta scavando un tronco d’albero, l’uomo ha scoperto molto presto che poteva muoversi agevolmente sull’acqua, dove ha imparato a spostarsi facilmente per raggiungere altre coste trasportando merci e persone. Intorno al 1200 a.C. fecero la loro comparsa nel Mediterraneo i Fenici, gli abitanti di una zona costiera oggi divisa tra Libano, Siria e Israele, che cominciarono ad espandersi verso il mare, dimostrandosi i più grandi navigatori dell’antichità, arrivando ad oltrepassare le Colonne d’Ercole, quel limite fino ad allora considerato invalicabile, l’uomo temeva che al di là vortici marini e creature mostruose avrebbero inghiottito navi e uomini, e arrivarono a toccare le coste meridionali britanniche. In realtà non è noto il vero nome di questo misterioso popolo di navigatori, furono i Greci a chiamarli “φοινίκός” (phoinikòs), cioè “rossi di porpora” dal colore di quelle rosse stoffe, tinte con una strana conchiglia, che commerciavano, insieme ad olio d’oliva, vino e legno di cedro.

La navigazione all’inizio era comunque prevalentemente costiera e diurna, poi nacque la necessità di navigare anche di notte e l’uomo imparò ad orientarsi con le stelle, ma questo non bastava ad evitare scogli affioranti, banchi di sabbia, correnti, così nacquero i primi “fari”, che non erano altro che falò di legna accatastata, situati nei luoghi più pericolosi per segnalare la rotta ai naviganti. Questi primi fuochi necessitavano di continua cura, dovevano restare accesi tutta la notte, il buio significava pericolo e morte, ci voleva la presenza costante dell’uomo per procurare il combustibile e per tenerli accesi. Probabilmente i primi “guardiani del faro” sono schiavi o prigionieri, a cui tocca questo compito così gravoso.

Omero (VIII Secolo a.C.), nel XIX libro dell’Iliade paragona lo scudo sfavillante di Achille ad uno di questi fuochi : “[Achille] s’imbracciò lo scudo / Che immenso e saldo di lontan splendea / Come luna, o qual fuoco ai naviganti / Sovr’alta apparso solitaria cima / Quando, lontani da’ lor cari, il vento / Li travaglia nel mar……. “ (vv. 373-378)

Altri poeti classici dell’antichità, da Ovidio a Virgilio, hanno rappresentato il faro come un mito ispirandosi alla leggendaria Ero, sacerdotessa di Afrodite, che aspettava ogni notte Leandro, il suo amante, sulla riva dell’Ellesponto, che egli attraversava a nuoto per raggiungerla, guidandolo con una fiaccola accesa, il faro appunto. Una notte il vento spense la luce e Leandro si perse tra i flutti, così Ero, disperata, seguì la sua sorte.

Con l’evolversi della navigazione sulle rotte più importanti del Mediterraneo furono costruiti i primi grandi porti e i falò vennero sostituiti da impianti di segnalazione più potenti. E’ proprio in questo momento che hanno fatto la loro apparizione i due fari più conosciuti di tutta l’antichità, due monumenti che non saranno mai più eguagliati.

Uno di questi, inserito intorno al 200 a.C. nell’opera “De septem orbis spectaculis”, attribuita a Filone di Bisanzio, tra le sette meraviglie del mondo, è il Colosso di Rodi, un’enorme statua antropomorfa che rappresentava Elios, il dio del sole, con un braciere acceso in una mano. L’iconografia classica la descriveva alta 70 cubiti, circa 32 metri, costruita a cavallo dei due bracci del porto, con le navi che passavano tra le sue gambe, ma in realtà non si conosce la sua esatta collocazione. Questa enorme statua era stata eretta da Cario di Lindos intorno al 290 a.C, costruita in pietra e ricoperta da piastre di bronzo, ebbe però vita breve, crollò in mare a causa di un terremoto 80 anni dopo la sua costruzione

Il Colosso non è stata l’unico rappresentazione antropomorfa di un faro nella storia. La Statua della Libertà, collocata  all’ingresso del porto di New York nel 1886, con i suoi 93 metri di altezza da terra alla fiaccola, fino al 1902 fu definita “Aid to navigation” (aiuto alla navigazione), cioè un faro a tutti gli effetti, sia pure a luce fissa, era gestita dal Servizio Fari americano ed è stato elettrificata poco tempo dopo la sua collocazione, il primo faro in assoluto ad essere elettrificato negli Stati Uniti.

Il faro dei fari, il faro per eccellenza, quello che veniva considerato un’altra delle sette meraviglie del mondo, fu quello di Alessandria, la grande città egiziana sul Mediterraneo fondata da Alessandro Magno nel 332 a.C. Questo monumento ebbe una vita lunga, ma assai travagliata. Fu costruito da Sostrato di Cnido intorno al 280 a.C. sull’isolotto di “Ψάρος” (Pharos), oggi un promontorio, di fronte ad Alessandria, ed in seguito, il nome di quella località, in tutte le lingue di origine greca e latina, è diventato sinonimo di quel genere di struttura.

La sua costruzione fu iniziata sotto il regno di Tolomeo I° (305-283 a.C.), già generale di Alessandro Magno, e venne terminata durante il regno di suo figlio Tolomeo II° (285-246 a.C.), i Faraoni di un Egitto ellenistico, l’ultima dinastia di Faraoni che sarebbe terminata con la morte di Cleopatra nel 30 a.C. e con la dominazione romana. Era la struttura di segnalazione più famosa al mondo, era alta 120 mt., rivestita di pietra bianca e il fuoco acceso sulla sua sommità, grazie ad un gioco di specchi, poteva essere visto a più di 30 miglia. Aveva una base quadrata alta 71 mt., sormontata da una parte centrale ottagonale di 34 metri che terminava con una lanterna cilindrica, sulla cui sommità svettava una statua di Zeus, perché i greci Tolomei avevano portato dalla terra d’origine anche i loro dei cheavevano affiancato a quelli Egiziani. All’interno un larga rampa consentiva di portare alla lanterna, per mezzo di muli la legna resinosa per il fuoco e inoltre alloggiava anche una guarnigione di soldati di guardia al porto. Nel 641 d.C. il faro fu danneggiato dall’assedio posto dagli Arabi che conquistarono Alessandria e cessò di operare, pur rimanendo al suo posto, ma venne in seguito distrutto da una serie di terremoti. Nel 700 d.C. crollò la lanterna, nel 1100 la struttura ottagonale e l’ultimo terremoto, nel 1302, fece crollare in mare anche la base quadrata che, nel frattempo, era diventata una moschea. Nel 1995 una spedizione di archeologi subacquei francesi, guidati da Jean Yves Empereur, mentre esplorava i fondali del porto di Alessandria alla ricerca di vestigia dell’antica città, si è imbattuta in enormi blocchi di granito che sembrerebbero provenire dalla base del faro.

Dopo questa meraviglia i fari sembrarono sparire, si ritornò ai falò, fino a quando un’altra grande civiltà si affacciò su Mediterraneo : quella dei Romani.  Furono loro a costruire le prime vere torri sulla cui sommità si teneva acceso un fuoco di fascine e di legna, fu per opera dei Romani che queste torri uscirono dal bacino del Mediterraneo per accendersi sulle coste spagnole e francesi,arrivando fino al Canale della Manica, dovunque giungesse la conquista romana. In Italia, a Ostia, venne costruito dall’imperatore Claudio nel 50 d.c. un porto, poi ampliato da Traiano come sbocco sul mare della capitale, e al suo ingresso fu eretto un faro che emulava quello di Alessandria, almeno nell’aspetto se non nelle dimensioni, e ancora oggi lo si può vedere rappresentato nel pavimento a mosaico del piazzale delle Corporazioni di Ostia Antica. Altri fari sorsero dovunque vi fosse un porto Romano, dal Tirreno all’Adriatico, e i fari vennero anche rappresentati su monete e bassorilievi. Altri fari sono stati ricordati da Plinio e da Svetonio : quelli di Ravenna, Pozzuoli, Capri e Messina. Prima della caduta dell’Impero Romano 30 torri di segnalazione illuminavano il mare lungo le coste del Mediterraneo e dell’Atlantico

 

Un faro costruito dai romani è ancora in funzione dopo 2000 anni, si tratta di quello di La Coruña, in Spagna, chiamato Torre de Hèrcules per via delle molte leggende che lo circondano legate al mitico eroe. Fu costruito da Caio Sevio Lupo, proveniente dalla Lusitania, l’odierno Portogallo, intorno al 100 d.C. durante il regno dell’Imperatore Traiano, fu dedicato a Marte e l’architetto pose allora alla sua base una targa con questa iscrizione che è tutt’ora leggibile :

MARTI AUG. SACR./ C. SEVIVS LUPUS

/ARCHITECTUS AEMINIENSIS / LUSITANUS EX.VO

(” Consacrato a Marte / Caio Sevio Lupo / architetto di Aemium / in Lusitania, a compimento di una promessa”)

Un altro faro romano, costruito intorno al 41 d.C. vicino a Boulogne, sulla costa francese della Manica per volere di Caligola, una torre alta 37 metri, dopo essere stato abbandonata dai Romani aveva iniziato ad andare inesorabilmente in rovina. Sembra che lo stesso Carlomagno avesse ordinato di restaurarlo nell’800 d.C. e che sia stato acceso di tanto in tanto, ma a causa dell’erosione marina e delle intemperie è definitivamente crollato nel 1644.

Dopo la caduta dell’Impero Romano nel primo Medio Evo, i secoli bui che seguirono oscurarono anche il mare. Le torri erette dai romani erano ormai andate in rovina, così si ritornò ai falò sulle colline nei punti pericolosi per la navigazione o a bracieri a bracci mobili posti soprattutto all’ingresso dei porti. In Inghilterra e Francia, governate già dalle grandi dinastie, furono soprattutto le torri dei monasteri in riva al mare a svolgere la funzione di fari, sempre alimentati con fascine di legna e gestiti da ordini monastici e dai grandi ordini religiosi cavallereschi, come i Templari, gli Ospitalieri ed i Cavalieri di Malta. In Germania la Lega Anseatica riunì molte città costiere tedesche e scandinave e favorì la costruzione di fari a protezione delle coste e dei porti. Ma c’erano anche dei monaci eremiti che svolgevano questo compito, se ne trovavano in tutta Europa : in Italia possiamo ricordare il monaco San Raineri che teneva un falò acceso a protezione dello Stretto di Messina, dove, su un vecchio bastione, nel 1857 è stato eretto un faro, ma il più famoso di tutti è certo San Venerio (560 ca. – 630), che viveva da eremita sull’Isola del Tino, nel Golfo di La Spezia e che ogni sera, all’imbrunire, accendeva un fuoco sul punto più alto dell’Isola, per aiutare i naviganti ad attraversare sani e salvi quel tratto di mare. San Venerio dal 1961 è diventato il protettore dei Faristi d’Italia ed in ogni faro si trova una piccola pergamena bordata di rosso con una preghiera a lui dedicata.

 

E’ solo a partire dai secoli XI e XII, con la ripresa dei commerci, soprattutto con l’Oriente, che lungo le coste d’Italia, su cui si affacciavano le quattro Repubbliche Marinare, ma pur sempre divisa tra Signorie e Comuni, vennero erette alcune torri sulla cui sommità continuarono a bruciare brugo e ginestra secca, il combustibile più comune nell’area Mediterranea. Venne eretta una lanterna alla foce del fiume Ausa, vicino a Rimini, sull’Adriatico, poi insabbiatosi, e sul Tirreno le torri di Genova, quella di Porto Pisano, della quale ormai non rimane più niente, la torre sulle secche della Meloria, il primo faro costruito in mare aperto nel Mediterraneo, e venne ristrutturato il vecchio faro romano di Capo Peloro, a Messina.    Fra tutti solo il faro di Genova, ricostruito in epoca rinascimentale, è ancora attivo ai giorni nostri.    Il mantenimento dei fari nei porti era molto oneroso, ma veniva assicurato dalle tasse che le navi in entrata dovevano pagare alle autorità preposte per permettere la cura e l’alimentazione del fuoco sulla sommità del faro stesso. Intanto si era evoluta anche la navigazione, era entrata in uso la bussola che la rendeva più sicura, e vennero anche redatti i primi portolani che riportavano le posizioni dei segnali luminosi. Sul finire del Medio Evo l’architettura ebbe un nuovo sviluppo e anche i fari non vennero più visti come una nuda torre che indichi la via o l’ingresso di un porto, ma come monumenti architettonici e come tali dovevano essere costruiti. Nel 1304, per volere di Cosimo I° De Medici, è stato costruito presso l’imboccatura Sud del porto di Livorno, diventato lo sbocco a mare per i traffici marittimi della Toscana, un faro alto 47 metri costituito da due torri cilindriche merlate, più larga quella alla base, più stretta quella superiore, la cui sommità era raggiungibile per mezzo di una scala ricavata all’interno delle mura. Nel porto di Genova, alla base della collina di San Benigno, su uno scoglio proteso sul mare, esisteva già, fin dal 1129, una semplice torre di segnalazione, tanto importante che un intero quartiere aveva il compito di fare la guardia alla costruzione e di rifornirla di combustibile. Nel 1371 anche questo faro aveva già subito delle trasformazioni, un disegno tratto a penna sulla copertina di un manuale dei “Salvatori del Porto” ce lo mostra come una costruzione a tre livelli, con merlatura ghibellina, la fazione predominante a Genova, alleggerito da finestre a ogiva e sormontata da una lanterna, da cui poi il faro ha preso il suo nome. In questo manuale della corporazione, che gestiva sia il porto che il faro in quell’epoca, venivano registrate le spese occorrenti per la manutenzione della torre e le nomine dei guardiani. Si racconta che nel 1449 divenne uno dei guardiani del faro di Genova, che venivano chiamati “turrexani” , Antonio Colombo che risulta essere lo zio del più famoso Cristoforo. Intanto aveva fatto la sua apparizione il vetro, che, benché conosciuto fin dall’antichità più remota, ora veniva prodotto in lastre soprattutto da vetrai di Altare, vicino a Savona, noti fino dal XIII secolo, e poteva essere utilizzato per innalzare sulla sommità dei fari delle lanterne chiuse da vetri, che ne miglioravano la conduzione, in quanto vento e pioggia non minacciavano più il fuoco. Anche i combustibili erano variati nel tempo, nell’area mediterranea si era passati dal brugo all’olio d’oliva. Però questi vetri non erano  ancora raffinati, erano spessi e porosi e la fuliggine li anneriva facilmente, per cui dai registri delle Corporazioni Genovesi, risultava che i “turrexani” venivano riforniti di spugne di mare, bacinelle, stracci e bianco d’uovo per la pulizia dei vetri. Bisogna spettare il 1700 perché il vetro si evolva e diventi simile a quello in uso oggi.

In epoca rinascimentale e barocca il faro viene sempre più considerato come una struttura architettonica, un monumento degno di ammirazione. In Francia Louis de Foix, verso la fine del 1500, costruì il faro di Le Cordouan, all’estuario della Gironda, un fiabesco castello in mezzo al mare, un trionfo di colonne, statue, guglie e pinnacoli, sormontato da un’elegante lanterna a 27 metri d’altezza. All’interno si trovavano due stanze reali, che nessun Re ha mai frequentato e una cappella dove forse nessuno ha mai pregato. Questo faro venne definito “Le Roi des phares, le phare des Rois. In Inghilterra un estroso personaggio, Henry Winstanley, verso la fine del 1600, era riuscito a erigere su Eddystone, un pericolosissimo scoglio situato all’ingresso occidentale della Manica, un fantasioso faro in legno, dotato di una grande veranda aperta, un terrazzo e un’elaborata lanterna, sempre di legno. Ma una notte, all’inizio del 1700, una terribile ondata portò via il faro con tutti quelli che si trovavano all’interno, compreso il suo costruttore. Si trattava di monumenti architettonici belli e ricercati, ma spesso inadatti a svolgere il loro compito di faro, ed assolutamente incapaci di resistere alla furia del mare.

In Italia il più bell’esempio di architettura rinascimentale lo abbiamo nel faro di Genova “la Lanterna”. La torre del vecchio faro costruito nel 1129 era stata tranciata da una cannonata sparata dalla stessa flotta genovese, guidata da Andrea Doria, che nel 1512 stava cercando di cacciare i francesi che si erano asserragliati nel Forte Briglia, alla base della torre.  Dopo circa 30 anni il Doge Andrea Centurione, con un finanziamento del Banco di San Giorgio, decise di ricostruire la torre ed affidò l’incarico ad un architetto sul cui nome le fonti non sono concordi, alcuni indicano Francesco da Gundria, altri fanno il nome di Gio Maria Olgiati, comunque nel 1543 il nuovo faro rinacque dal troncone del precedente. In realtà la sua linea più che ispirata al rinascimento sembra richiamare le linee medioevali, è costruito in due settori, quello inferiore, che finisce con una terrazza, è più largo ed è sovrastato da un altro troncone più stretto, su cui svetta un’imponente lanterna. La primitiva merlatura ghibellina è stata sostituita da un muro in pietra e all’interno è stata costruita una scala in muratura per sostituire quella in legno del faro precedente. Il faro ha subito danni provocati dai fulmini, la lanterna è stata modificata nel tempo e sono stati eseguiti diversi interventi di manutenzione, ma dall’alto dei suoi 77 metri, che diventano 117 sul livello del mare, questa altera signora domina ancora Genova ed il suo fascio di luce è visibile per 26 miglia.

In un’Italia non ancora unita ogni Signoria, Repubblica o Principato che avesse uno sbocco al mare, e quindi un porto, costruiva il suo proprio faro.   Ne abbiamo un esempio a Portoferraio, dove nel 1778 l’Arciduca Leopoldo di Lorena, che allora governava la Toscana, fece costruire sul bastione settentrionale di Forte Stella, eretto dai Medici, una torre alta 25 metri, in stile vagamente medioevale, con una merlatura sotto la lanterna. Solo nel 1860, quando anche l’Isola d’Elba entrò a far parte del Regno d’Italia la torre è diventata un faro a tutti gli effetti, con una portata di 16 miglia. Questo è uno dei tanti fari italiani costruiti al di sopra di fortificazioni preesistenti, se ne possono citare altri : quello dell’isola del Tino, al largo di La Spezia, di Porto Azzurro, sempre sull’Isola d’Elba, il Faro di Forte la Rocca a Porto Ercole e la Torre di San Raineri a Messina. A Rimini, allora facente parte dello Stato Pontificio, nel 1733 l’architetto Luigi Vanvitelli progettò un nuovo faro, che fungeva anche da torre fortino per l’avvistamento dei pirati. Il faro fu terminato nel 1754 da G.F. Buonamici, ha una forma quadrangolare, è alto 25 metri, è tutto dipinto di bianco, ed ha una portata luminosa di 15 miglia.

Intanto anche l’illuminazione dei fari era in continua evoluzione, era necessario renderla sempre più visibile in modo che la loro luce si distinguesse da quelle della costa dove stavano crescendo nuove città e nuovi porti.   Molti scienziati si dedicarono a studi innovativi e nel 1782 il fisico svizzero Aimé Argand (1755-1803) inventò un bruciatore circolare con dieci stoppini alimentati ad olio che duravano 10 giorni, ai quali vennero in seguito aggiunti degli specchi parabolici rotanti che ne aumentavano la luminosità, sistema messo a punto da Jonas Norberg (1711-1783). Questa tipo di lampada venne in seguito ancora perfezionato dall’ orologiaio francese Bertrand Carcel (1750-1812) ed entrò anche in funzione un meccanismo rotante ad ingranaggi, azionato da contrappesi che scendevano lungo la torre, e manovrato a mano. Questo antico sistema, ancora presente in molti fari, può venire usato in casi di emergenza.

E’ stato però a partire dal 1800, il secolo della “farologia”, che, grazie ad un innovativo sistema di illuminazione, la luce dei fari raggiunse il suo massimo splendore. Un fisico francese, Augustin Jean Fresnel (1788-1827), che si era specializzato nello studio della rifrazione della luce, progettò nel 1822 una lente rivoluzionaria, basata in realtà su un principio molto semplice : la sua forma era vagamente ovale ed una serie di anelli prismatici posti in alto ed in basso dirigevano i raggi luminosi verso il centro, dove la lente principale, li raccoglieva e li proietta verso l’esterno.

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